Una domenica pomeriggio ancora calda, mi addentro in un parco milanese facendomi largo fra le famigliole, i ragazzi e le ragazze con gli skate, bambine e bambini che giocano e arrivo all’atteso concerto di chiusura delle Lesbiche Fuorisalone – Chinawoman!! Voce calda, profonda e atmosfere noir al centro di un palco… illuminato letteralmente a giorno! Le ampie vetrate della Palazzina Liberty lasciavano entrare tutto il parco, il chiaro e verde del pomeriggio – e altrettanto lasciavano trasparire la cantante e il pubblico brulicante. Insomma, quasi un simbolo dell’intento del fuorisalone di dare visibilità alle lesbiche, alle nostre parole, la nostra cultura, la nostra presenza in città, la nostra vita.
Perché allora, mi chiedo andando subito al nocciolo di ciò che mi preme – perché al concerto c’erano solo lesbiche, transessuali, bisessuali, gay? Il popolo queer? Dov’erano tutti gli altri e le altre? le ragazze ed i ragazzi etero? Le famiglie del parco? Perché ad un evento organizzato per promuovere la visibilità lesbica c’erano solo lesbiche che si guardavano a vicenda?
Avrei voluto un pubblico un po’ più vario – d’altronde è un concerto, è arte, non è che agli eventi organizzati da persone (si presume) etero ci vadano solo persone etero. Questo certo, è un argomento scontato – e dunque perché implicitamente ancora si assume, che lo si voglia o no, che un evento su cui aleggia la parola “lesbica” nasca da un’esigenza lesbica, sia fatto da lesbiche e consumato da lesbiche? Una specie di ritaglio di mondo off limits che si sente pronunciare e si lascia lì quasi fosse un universo parallelo? Allo stesso modo per cui non esistono “questioni di donne”, non esistono nemmeno “questioni di lesbiche”.
Avrei voluto che la coppia di amici, donna e uomo con figlio, da cui ero stata a pranzo poco prima venissero con me. Ma io stessa, in effetti, non ero del tutto tranquilla nel proporglielo – anticipavo il loro imbarazzo immaginando la scena (io, mamma, papà e figlio) “più tardi verso le quattro vado ad un concerto di Chinawoman delle lesbiche fuorisalone, venite?” Si sarebbero guardati a vicenda un po’ perplessi? Quasi la domanda risultasse inopportuna? Avrebbero trovato una scusa?… e per evitare tutta la scena imbarazzo compreso diciamo che non ho insistito.
D’altronde la sola parola “lesbica” fa ancora paura, e tanta! Sembra quasi una specie di bolo che ti si ferma in bocca, che mastichi e rimastichi ma non riesci a buttar giù. Si abbassa improvvisamente la voce quando nella frase arriva il suo turno, o si esita un po’ sperando di trovare in quei due secondi un percorso alternativo che lasci intendere senza esplicitare o si confida sul fatto che l’altra persona capisca senza il bisogno di pronunciarla – lesbica. Una patata bollente, in effetti…
Ma poi, a dirla tutta, nemmeno a me piace molto la parola “lesbica”, di sicuro anch’io ci associo qualcosa di anti-patico – se non altro il volto delle persone che disgustate o imbarazzate la pronunciano. Ma l’ho scritta e riscritta come si scrive una rosa è una rosa è una rosa è una rosa (senza alcuna pretesa, chiaramente). L’ho scritta e riscritta perché anche la parola “queer”, che a noi italiani sembra molto cool, doveva a suo tempo suonare amara come un’insulto – e l’hanno detta e ridetta finché il suo stesso suono ha cambiato colore, è diventato pink!
giusto! Perché è questione di civiltà: come si può essere fieri di una società che discrimina per l’orientamento sessuale? L’indifferenza giustificata dall’estraneità alla discriminazione è un’ingiustizia e una violenza: la non-azione è dannosa quanto la discriminazione stessa perché ne perpetua l’esistenza. E allora “i problemi delle lesbiche” sono “problema di tutti”.